La dottoressa Amalia Bruni è una neurologa, una scienziata famosa in tutto il mondo. Dirige il Centro Regionale di neurogenetica di Lamezia Terme. Insieme ai suoi collaboratori, dopo anni di studi e di ricerca, ha scoperto il gene responsabile dell’Alzheimer.
Dottoressa, quando ha capito che sarebbe diventata una neurologa?
In realtà io non ho capito che sarei diventata una neurologa. Mi è scoccata una passione irrefrenabile per lo studio del cervello e per lo studio della mente quando avevo quattordici anni. Ero un capo scout, e avevo una squadriglia con la quale bisognava recuperare dei fondi perché se no il campeggio estivo non si faceva; in quel periodo c’era il Centro Servizi Culturali che era una struttura molto attiva e aveva da sistemare una stanza piena di libri. Ci hanno offerto di farlo per un mese di lavoro e per cinquantamila lire. Mettendo a posto questi libri ho trovato questo trattato di psicoanalisi, l’ho preso in prestito, l’ho letto, l’ho divorato per l’esattezza. Mi ha folgorato, e ho realizzato che capire il pensiero delle persone e il perché dei comportamenti era un cosa che mi affascinava. Dopo il liceo avevo deciso di fare psicologia perché in quegli anni nasceva la facoltà di psicologia. Poi invece per un caso, perchè al momento dell’iscrizione mi hanno indicato una porta piuttosto che un’altra, ho chiesto l’internato nella scuola di neurologia anzichè di psichiatria. Quindi è un totale caso che io sia diventata neurologa piuttosto che psichiatra ma, in realtà, poi a distanza di tempo ho realizzato che la scelta è stata corretta e che poi occuparsi di demenza mi ha consentito assolutamente di fondere i due mondi, della psiche e della parte più organica, anche perché il nostro cervello è uno ed è straordinario.
Lei è la direttrice del Centro regionale di neurogenetica di Lamezia Terme. Cosa significa fare ricerca in Calabria?
E’ una bella sfida. È una sfida che porto avanti da tanti anni con grande passione. Questa è una terra assolutamente straordinaria da un punto di vista di patologie estranee. Noi siamo un crocevia di popolazioni che sono emigrate nei secoli e ognuno di queste popolazioni ci ha lasciato dei pezzi. La nostra terra di Calabria è stratificata in maniera diversa a secondo se procedi dal sud verso il nord quindi non esiste un DNA calabrese. Noi siamo stati oggetto di tante immigrazioni e questo ci ha lasciato tante caratteristiche fisiche, pensiamo a quante persone sono bionde con gli occhi azzurri quindi assolutamente poco consuete per un tratto meridionale. Queste immigrazioni ci hanno lasciato però, anche delle malattie particolari. Poi anche il fatto che noi siamo molto chiusi, ancora ci sono tanti piccoli villaggi isolati e anche tanti immigranti nuovi. Questo ricambierà in un qualche modo il nostro DNA però ha lasciato e lascia delle patologie molto importanti da studiare che è vero che sono rare ma sono un modello di studio. Perché in scienza e in ricerca, noi dobbiamo procedere con dei modelli. Dobbiamo scegliere qual è il modello di studio. Per caso io sono incappata in una ricerca che era già partita molti, moltissimi anni addietro ma che si era fermata perchè non aveva dei collegamenti locali e riguardava alcune famiglie in cui questa malattia di Alzheimer, che all’epoca non si conosceva, stiamo parlando della fine degli anni ottanta, era stata studiata e identificata a Parigi addirittura negli anni settanta quindi, in maniera totalmente inconsapevole. Quindi questo è stato un inizio molto avventuroso, molto stile scout, poi piano piano invece sono arrivati i risultati e i contatti importanti internazionali. Di fatto questo lavoro è stato internazionale da subito e quindi è questo che forse mi ha dato anche la forza di andare avanti in un contesto difficile.
I suoi studi sull’Alzheimer e sulle malattie neurodegenerative hanno segnato un traguardo importante in questo campo, riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale. Vogliamo ricordare le sue scoperte?
L’aspetto per cui sono diventata famosa è questo isolamento della Presenilina 1 che è il gene maggiore dell’Alzheimer. Devo fare una piccolissima digressione. Fino agli inizi degli anni ottanta non esisteva proprio la genetica molecolare, quindi lo studio del genoma era un qualche cosa di non applicabile su quelle che erano le malattie. La prima malattia che viene studiata è la Corea di Huntington. Questa è un’altra forma di demenza ereditaria che colpisce molto i giovani, tra l’altro in Calabria abbiamo tantissime famiglie che ne soffrono. Questa Corea di Huntington fu studiata da Ginkgo Sella a Boston. Lui con queste tecniche nascenti, nuovissime, identificò la mutazione genetica e quindi questo aprì un portone straordinario perché tutti si resero conto che con lo stesso metodo avrebbero potuto studiare malattie diverse purché fossero in forma ereditaria. E allora il problema era però di avere delle enormi famiglie, il che significava avere tanti ammalati all’epoca, bisognava avere almeno undici ammalati, bisognava che questi si trasmettessero di generazione in generazione insomma tutta una serie di caratteristiche. Per cui le famiglie che io avevo cominciato a studiare, ricostruite con genealogia, con tutta una serie di tecniche molto particolari anche di natura archivistica che la nostra terra ha molto sviluppate, è stato possibile renderle le famiglie più grandi del mondo. Quindi su queste famiglie più grandi del mondo, è stato possibile isolare la Presenilina 1 e non ci si sarebbe arrivati altrimenti. E questo accadeva nel ’95. A distanza di cinque anni sempre continuando a studiare queste famiglie, perché poi la parte che è importante è quella di mettere insieme la clinica con la ricerca e io penso che i due aspetti non possano scindersi, nella maniera più assoluta. Continuando a studiare questo, abbiamo identificato questa nuova proteina che non era ancora stata scoperta, delle membrane neuronali, che entra nel meccanismo proprio della malattia e quindi questo è stato un altro avanzamento importante. Questa proteina è stata chiamata, non da me, Nicastrina in omaggio alla famiglia che è nota in letteratura come famiglia N. Ma la bellissima cosa è che tutti portiamo dentro la nostra testa Nicastrina, e quindi anche i giapponesi anche i marocchini chiunque che ha una vita, anche un animale, ha una Nicastrina in testa. Poi successivamente ci sono stati tanti altri risultati importantissimi su altre forme di demenza. Ho seguito per quindici anni una famiglia enorme, abbiamo escluso forse ventitré malattie fino ad identificare questa nuova forma che era una spinocerebellare tipo 17 (SCA17). Poi ancora le demenze fronto-temporali. Abbiamo disegnato in tutti questi anni una geografia genetica di queste patologie molto presenti da tante parti ma che qui hanno appunto delle caratteristiche peculiari se vogliamo, anche legate al contesto e quindi diciamo è molto importante rimanere qui per studiare.
Quali sono le differenze tra demenza e Alzheimer. Come distinguerli?
L’Alzheimer è una delle demenze, demenza è un nome più generale all’interno del quale si possono ritrovare tante forme. Noi siamo tanti esseri viventi, io mi chiamo Amalia, lei si chiama Paola, ognuno ha la sua identità, le sue cause, eccetera, il suo modo di essere. Oggi parliamo di malattia di Alzheimer e di demenza di Alzheimer per definire come malattia di Alzheimer ormai quasi la forma biologica con pochissimi sintomi e la demenza di Alzheimer quando invece la malattia è già andata avanti e quindi c’è una cognitività compromessa. Di questo penso che nel futuro ne sentirete parlare, in un futuro molto immediato, perché stanno uscendo i nuovi farmaci per la malattia di Alzheimer e biologici. Ma questi potranno esser dati solo a pazienti che stanno appena iniziando la malattia, nelle fasi più avanzate non fanno niente e dunque sarà difficilissimo riuscire a capire chi sviluppa la malattia di Alzheimer.
Quali sono i campanelli d’allarme a cui bisogna prestare attenzione?
Ci sono dei campanelli d’allarme. Bisogna essere molto bravi a fare attenzione a questi piccoli campanelli d’allarme che poi devono essere seguiti da visite serie. Un primo campanello d’allarme è il disturbo della memoria che è un classico che attiene a tante forme per lo più anche dell’età avanzata. Mentre i giovani con la malattia di Alzheimer possono avere anche segni, sintomi completamente diversi, che possono non c’entrare nulla con la malattia di Alzheimer classica tipo, disturbi a vedere, disorientamenti spaziali, incapacità a sbagliare a vestirsi, piuttosto che quadri depressivi, apatia, i sintomi sono tantissimi. È chiaro che ti allarmi se hai una grande familiarità, se hai tantissimi fattori di rischio o piuttosto ancora se hai un’età che comincia a crescere e c’è un cambio, in una qualche maniera, rispetto a quello che eri. Fermo restando che con l’invecchiamento ognuno di noi cambia perché il cervello si adatta a situazioni diverse, l’invecchiamento è un processo, non è un momento, bisogna capire quando c’è un invecchiamento fisiologico e quando invece sta sviluppandosi una malattia. Questo non è una cosa così semplice. Quindi si parte dai campanelli di allarme, da qualcosa che tende a ripetersi; quindi non è un unico campanello, non è un’unica volta che ha suonato la campana ma tante volte, accompagnate spesso dalla segnalazione dei familiari che notano che quella persona non è esattamente più la stessa, che sta modificando in un qualche modo. E poi sono necessarie le valutazioni neuro-psicologiche. È necessario fare una batteria di test neuropsicologici, ce ne sono anche di molto raffinati. Poi ci sono anche indagini da fare con i marcatori, quindi i pazienti andrebbero sottoposti a rachicentesi per misurare per esempio i livelli proteina beta-amiloide e Tau perché anche nei pazienti che stanno appena iniziando questo rapporto è alterato. Esistono anche delle altre indagini tipo la tomografia a emissione di positroni (la PET) sia col fluorodesossiglucosio (FDG) che con la beta-amiloide. Per esempio con quella con l’FDG tu vedi un cervello che non si nutre e quindi quelle aree diventano poco captanti, con la beta-amiloide invece vedi questa sostanza, questa beta-amiloide che è depositata nei cervelli. Allora se uno ha cinquant’anni e ha la beta-amiloide nel cervello mi preoccupo perché sono certa che ha davvero la malattia di Alzheimer se questo è associato a dei sintomi. Ma se questo signore ha invece ottant’anni, io la beta-amiloide la posso avere appiccicata nel cervello perché è un fenomeno di invecchiamento e non è detto che se tu hai la beta-amiloide poi necessariamente hai l’Alzheimer, quindi la situazione è molto complicata.
In base agli studi condotti fino ad oggi, si sa se l’ambiente esterno e l’alimentazione incidono sull’Alzheimer?
A questo proposito le scoperte degli ultimi anni sono straordinarie perché, si è visto che se noi riusciamo ad abbattere i fattori di rischio cardio-cerebrovascolari, quindi, ipertensione, colesterolo alto, trigliceridi alti, diabete soprattutto, e se riusciamo ad avere un alto livello di scolarità e quindi continuare a stimolare il cervello, fare attività fisica, combattere l’obesità, combattere il fumo e combattere l’alcol, abbiamo ridotto il venticinque percento dei casi di demenza nel mondo. È una quantità enorme perché le demenze rappresentano ormai una una vera pandemia. La dieta mediterranea e gli stili di vita sono importantissimi per ridurre o combattere questa possibilità. Noi in una qualche maniera dobbiamo fortificare cervello e fisico per combattere queste malattie dell’invecchiamento. Ci sono vari suggerimenti che si possono dare, per esempio imparare una piccola cosa nuova al giorno; è importantissimo studiare le lingue, una lingua nuova può essere uno stimolo molto importante; ma anche pulirsi i denti con la mano sinistra se uno destrimane o viceversa. Sono le cose nuove che stimolano il cervello e fanno in modo che le cellule si attivino e creino connessioni. I neuroni muoiono perché li perdiamo dai vent’anni in poi ma le cellule che rimangono fanno le connessioni. Questo, penso che sia il messaggio più importante. Noi siamo responsabili di noi stessi e della nostra salute. Quindi è vero che la malattia c’è ma, come questa malattia evolve, dipende da noi, perché ci possiamo impegnare perché ci sia una qualità di vita. Anche socializzare con gli altri è molto importante, fare tutta una serie di attività, perché stare chiusi tra quattro mura è devastante.
Che consigli vuole dare ai familiari che vivono questa situazione?
Intanto noi non possiamo scindere il familiare dal paziente perché è una diade, li dobbiamo prendere in carico insieme. Il familiare ci fa conoscere la vita vissuta del paziente perché, è attraverso il familiare che noi veicoliamo una serie di messaggi anche per lo stesso paziente soprattutto quando è in una fase avanzata della malattia. Intanto il messaggio è quello che bisogna eliminare i sensi di colpa, quindi, io non sono responsabile della malattia di mio padre, di mio fratello, di mio cognato, di mio nipote. Nessuno è responsabile della malattia. Le malattie arrivano, però dobbiamo renderci conto che noi, come familiari, abbiamo la possibilità di migliorare la qualità di vita di questa persona. L‘accettazione della malattia fa tantissimo. L’accettazione significa anche che io sono capace di parlare della malattia del mio familiare all’esterno, senza stigma, senza colpevolizzare niente e nessuno, senza vergogna. Se noi riusciamo ad abbattere questo, possiamo creare una qualità di vita buona per gli ammalati. Come ministero della salute, abbiamo anche creato le linee guida per le comunità amiche della demenza che cominciano a diffondersi anche in Italia. Bisogna istruire, all’interno dei quartieri, delle città, dei piccoli borghi. Bisogna istruire chiunque su che cosa significhi avere la malattia di Alzheimer e, questo riguarda i poliziotti, i vigili urbani, la scuola, i ragazzi, gli insegnanti. Perché? Perché in questa maniera le persone malate possono essere anche libere di muoversi e perché la persona che sta di fronte, se vede uno che si è perso e capisce che ha una una forma di demenza o una malattia di Alzheimer, sa come lo deve trattare, sa come lo deve prendere. E allora questo fa un mondo molto più affettivo. Noi dobbiamo necessariamente entrare, come società globale, in questo problema, perché i milioni di pazienti nel mondo non saranno mai gestibili da nessuna organizzazione sanitaria. I medici fanno una piccola parte, i ricercatori un’altra piccola parte ma, quello che deve fare moltissimo sono le famiglie e la società, globalmente, con l’identificazione di luoghi dove i pazienti possono incontrarsi. La preparazione dei familiari va fatta ed è molto importante e ci sono e servono gli psicologi che sostengono i familiari, servono gli psicologi che sostengono i pazienti, servono i caffè Alzheimer, servono i centri diurno, serve un sacco di lavoro.
Lei ha lavorato da giovane con Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la medicina. Che rapporto avevate?
Lei era una persona assolutamente straordinaria. Io in realtà non ho mai lavorato con Rita Levi. Conobbi Rita a un suo convegno nel 1987. Poi lei è venuta in Calabria diverse volte per tutta una serie di convegni e, ogni volta, mi chiedevano di andarla a prendere. Lei scoprì del lavoro che stavo facendo sulla malattia di Alzheimer e era stupita di questa particolarità anche perché, questa tipologia di lavoro, negli anni ottanta, era inusuale. Quindi lei mi si legò moltissimo. Il rapporto tra di noi è stato più tra una madre scientifica e una figlia che non un rapporto di collaborazioni vere e proprie. Lei forse un po’ si rivedeva in me. Io questo poi l’ho realizzato dopo molti anni perché anche lei aveva avuto una vita molto difficile. Aveva cominciato a studiare i famosi suoi embrioni di pollo sotto al letto, aveva affrontato grandi difficoltà e forse riconosceva le mie difficoltà un po’ come le sue. Il nostro era un rapporto molto forte, ci sentivamo veramente molto spesso. Siccome la chiamavano in giro a parlare di argomenti dei quali lei non si occupava, mi chiedeva aiuto per la preparazione delle sue presentazioni, delle sue relazioni. Fino a quando c’è stata lei la nostra vita è stata difesa in maniera straordinaria.
Anche il Centro è stato pensato da lei cioè è stata lei a insistere con il professore Nisticò che all’epoca era presidente della regione e a dirgli “guarda che questa se ne va, anche lei se ne va, le stanno facendo i tappeti rossi da tutte le parti, cerca di trattenerla perché il lavoro che sta facendo è straordinario”. Mi voleva bene, il nostro è stato veramente un legame particolare, affettivo. Tra l’altro, dopo molti anni ho avuto l’opportunità di conoscere una sua nipote che è medico. Quando Rita è morta io avevo scritto un articolo su un giornale che poi fu pubblicato e, questa nipote, mi telefonò o mi scrisse, non ricordo, per dirmi grazie. Era l’amica vera, era una persona di una capacità e di un’umanità straordinarie. Nel 2007 decisero che questo Centro doveva chiudere perché la ricerca la fa l’università e il Centro non aveva motivo di essere in quanto sito all’interno di un ospedale. Io la chiamai e le raccontai tutta questa storia. Rita era stata nominata Senatrice a vita, per cui non si poteva assolutamente muovere e allora, organizzammo di fare un’intervista. Con una camera e una giornalista andammo a casa sua a registrare quest’intervista e mi commuovo ogni volta che sento le parole che disse in quell’occasione.
Nei tanti viaggi che lei ha fatto per lavoro, ha percepito questo attaccamento degli italiani alle proprie radici?
In linea di massima, assolutamente sì. Tra le popolazioni più attaccate alle proprie radici, trovo quelle che sono emigrate in Australia. Ma ho visto e continuo a vedere, per esempio nei bivongesi, questo attaccamento. Bivongi è un bellissimo paesino a fianco a Stilo, dove ho studiato questa forma particolare di demenza temporale. I bivongesi sono legatissimi al loro paese, anche a tre generazioni di distanza. Ogni anno, tranne quest’anno per la pandemia, tornano a Bivongi e, quindi, i bisnipoti hanno lo stesso attaccamento dei loro nonni che sono partiti. Questo io non l’ho visto con altri emigrati delle altre aree d’Italia.
Grazie dottoressa per questa intervista.