“Ogni volta che tratto un paziente memorizzo il suo viso oltre al suo cuore. E quando torna, dopo 10, 15, 20 anni, io lo riconosco dagli occhi”. A parlare, con sensibilità e partecipazione umana oltre che scientifica, è la dottoressa Sonia Albanese, responsabile di Cardiochirurgia delle Aritmie dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Una eccellenza, la prima donna a fare un trapianto di cuore in Italia, anche se la questione di genere per lei non è quella principale. “Non lo considero un primato – spiega – sono una cardiochirurga pediatrica e ho sempre pensato che devo confrontarmi con miei simili, uomini e donne indifferentemente, comunque altri operatori che fanno il mio lavoro”.

Il caso però ha voluto che quando ha fatto il primo trapianto cardiaco, nel 2001, la sua equipe in sala operatoria fosse tutta al femminile. “Una coincidenza che ha evidenziato come la competenza medica in Italia sia sempre stata molto alta senza guardare alle differenze di genere. In questo senso si può parlare di competenza al femminile. In quell’occasione sentii la necessità di fare una sottolineatura su questo team di donne, per dire alle giovani ragazze che questa è una strada e una professione che anche una donna può intraprendere”.

Sonia Albanese si è laureata all’università di Bologna, poi due specializzazioni, la prima in chirurgia generale, la seconda in cardiochirurgia, con alcune esperienze all’estero. Cosa l’ha spinta a tornare a lavorare in Italia?

“Ho fatto il mio training a Montpellier, mi sono spostata a Parigi. Poi ho deciso di occuparmi di cardiochirurgia, sono tornata a Parigi, e successivamente a Bologna dove mi sono formata e dove mi era stato proposto di rientrare. Di lì a poco un’altra esperienza all’estero, a San Francisco. In seguito si aprì la possibilità di un lavoro a Roma dove ho deciso di venire perché a Roma c’è il primo centro italiano di cardiochirurgia pediatrica. Anche se la carriera all’estero avrebbe potuto essere più semplice, ho creduto nel nostro Paese. Sono legatissima all’Italia e tale sentimento mi ha aiutata a decidere in questo senso”.

Ci racconta del suo primo trapianto cardiaco pediatrico? Un appuntamento significativamente importante …

“Non si arriva casualmente a fare un intervento. Il primo intervento chirurgico è il risultato di una lunga preparazione. Si passa molto tempo in sala operatoria, si aiuta in prima o seconda battuta l’operatore. Quando una serie di abilità sono tutte presenti, via via per difficoltà, ecco che allora arriva il proprio turno. All’epoca il mio primario era il dottor Roberto Di Donato che oggi dirige il programma di cardiochirurgia pediatrica a Dubai. E’ stato lui a decidere che quel caso poteva essere affidato a me. Il paziente era un bambino di sei mesi e andò tutto bene. Da lì ci sono stati tanti altri casi sempre più complessi, sia di trapianto che di patologia normale”.

sala operatoria

Perché ha scelto l’ambito pediatrico e cosa significa curare i bambini?

“All’inizio del percorso alla facoltà di medicina, la mia preferita fin da quando ero bambina, non avevo pensato alla pediatria. Poi sono stata attratta dal fatto di alleviare la sofferenza dei bambini. Quello delle cardiopatie congenite è un campo molto complesso che presenta una variabilità di patologie. Trattiamo infatti neonati ma anche giovani adulti che sono in continuità e dei quali, quindi, siamo sempre noi a prenderci cura. La cosa particolare di questa specialità è che il nostro rapporto fiduciario con il paziente si allarga a dismisura. Non si limita al bambino ma inevitabilmente coinvolge i genitori e la famiglia in senso lato”.

In questo senso, essere donna ha rappresentato per lei un valore aggiunto?

“Ho colleghi maschi molto sensibili, non si può generalizzare. Sicuramente l’empatia femminile è più immediata. Non ha bisogno del linguaggio verbale, ci sono cose che si sentono a pelle, questo però non toglie nulla alla delicatezza dei colleghi maschi. Tutti quelli che lavorano in ambito pediatrico devono avere una certa sensibilità, altrimenti non potrebbero affrontare il discorso del bambino”.

Donna medico e chirurga, quante sono oggi le donne in prima linea in questo campo?

“In Europa c’è una crescita esponenziale di partecipazione femminile alla facoltà di medicina e chirurgia. Fino a dieci anni fa nella chirurgia la presenza femminile non era tanto rilevante. Ora invece abbiamo molte specializzande donne, con un rapporto di 7 a 3. La parola del futuro è chirurga perché in tutte le specializzazioni di chirurgia cominciano a esserci tante donne anche nei ruoli di responsabilità”.

Immagino che nella sua carriera ci siano stati anche dei momenti difficili…

“Certamente, a volte molto difficili. Noi medici partecipiamo al percorso di sofferenza delle famiglie, ma dobbiamo comunque mantenere un equilibrio emotivo e tecnico. E’ un equilibrio difficile… un percorso continuo che comporta uno sforzo importante per essere operativi al meglio anche da un punto di vista psicofisico. Per riuscire ogni giorno a mettere davanti la tecnica e la professionalità al proprio sentire nei confronti del paziente”.

A che punto è oggi la cardiochirurgia pediatrica in Italia?

“In questo momento ci sono risultati ottimali. Abbiamo a disposizione una codifica quasi completa di tutte quelle che sono le patologie del neonato. Ormai i casi complessi si affrontano in modo multidisciplinare. Inoltre, le nuove tecnologie hanno fatto fare significativi passi avanti e questo ci ha portato ad avere importanti risultati a livello internazionale. In particolare per i giovani si stanno aprendo nuovi scenari anche grazie alle tecnologie biomediche e ai sistemi di rappresentazione in 3D”.

A proposito di giovani, ha un consiglio da dare ai nuovi medici?

“Quello che più mi attrae e mi affascina della mia professione è la clinica, un aspetto che la tecnologia ha fatto un po’ perdere. Questo è ciò che desidero trasmettere alle nuove generazioni di medici. Nella nostra professione è fondamentale andare a visitare il paziente, guardarlo, parlargli, ascoltarlo. Aiuta a dare un’identità ai bisogni reali della persona che abbiamo di fronte perché quando il paziente parla ha una necessità. La clinica è l’impatto primo, uno dei punti chiave della professione del medico perché mette insieme tutti i pezzi del puzzle della persona che dobbiamo curare. Una sensibilità che nessuna tecnologia potrà mai sostituire”.

Sonia Albanese, la prima donna a fare un trapianto di cuore in Italia ultima modifica: 2021-10-23T13:00:00+02:00 da Cristina Campolonghi

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