Articolo a cura di Matteo Donelli

Camicia impeccabile. Un martedì pomeriggio torrido di luglio ma senza una piega. Parla veloce, un argomento dietro l’altro con quegli occhi che non smettono mai di sorridere.

Eccolo di fronte a me Andrea Ferraioli per la prima volta. Inaspettatamente. Perché quel giorno io non dovevo essere dalla sua cantina e lui non doveva essere nella sua cantina.

Amici di amici comuni ci fanno incontrare sapendo della mia fame di storie umane di produttori e lui, Andrea, non così avvezzo a scrittori giornalisti.

Sulla sua scrivania non ci sono trofei né, sulle pareti ritagli di giornali che lo celebrano.

Zampe da gallina che accentuano la positività di quello sguardo fatto di occhi buoni.

Per il mondo del vino un vero e proprio visionario.

E’ andato, lui e la sua azienda dove esattamente le altre aziende non volevano andare.

Controcorrente. Dove c’erano potenziali produzioni massive con relativi importanti fatturati da poter cogliere, lui è andato all’opposto. Con tenacia. O come dice Marisa sua moglie, scherzosamente “da zuccone”.

Perché alla fine ha creduto in qualcosa difficile solamente da pensare. Una vite che nasce in posti dove l’uomo fa fatica ad arrivare. E che a volte cresce in orizzontale, dove la radice si è abbracciata in un muretto artificiale espandendosi in una crescita impossibile quasi contro le leggi della natura.

In via GB Lama 16 a Furore, proprio sotto la sede della cantina, la forza della natura si paventa con vigneti dalla logistica impossibile, contrapposta all’altrettanto forza dell’uomo, di Andrea.

Capace di domarla l’irruenza della natura con garbo e rispetto. E Andrea non poteva che essere il padre del Fiorduva, vino eroico dal colore dell’ordo e dal sapore di roccia e mare.

Figlio del sudore e della laboriosità dell’uomo. Prodotto spesso in aree impervie o in minuscoli appezzamenti strappati alle montagne e alle rocce. Fiordo di Furore affacciato sul Golfo di Salerno. Da li ha inizio l’avvenuta da romanzo di Andrea e sua moglie Marisa Cuomo da cui prende il nome l’azienda.

“Gran Furor Divina Costiera” è oggi tra i migliori marchi dell’enologia italiana. Andrea Ferraioli è discendente da un’antica famiglia di vinificatori locali che ha acquistato il marchio, nato nel 1942 per identificare la vendita dei vini della Costa di Furore, ottenuti dalle vigne sdraiate a picco sul golfo di Salerno 

 Un marchio che è sinonimo di ridottissime rese per ettaro e da una vendemmia tardiva.

180.000 bottiglie all’anno di cui il 60% è da vino bianco.

Uve Falanghina e Binaconella formano il “Furore Bianco”, mentre il Furore Rosso ha una composizione di Palummo e Aglianico. Quest’ultimo invecchia dodici mesi in barriques nuove di rovere francese che conferiscono al vino un inconfondibile gusto morbido.

Tanta tecnica ma anche una forte volontà di rileggere il passato di produzione. Una produzione sartoriale. Guidata dall’enologo Luigi Moio che da subito guida l’azienda verso una scelta di alta qualità incentrata nel far emergere i sapori unici del territorio della costa di Furore.

Poi le medaglie e gli attestati. Piovuti fitti sulla cantina Cuomo già dai primi anni duemila.

Dai “Tre Bicchieri” della guida del Gambero Rosso ai premi internazionali come a quello statunitense del “Best of  Class” Award Limited Production e latri mille.

Selezionata come una delle quattro super etichette della cultura enologica italiana. Sassicaia, Masseto, Barbaresco Gaja e appunto Fiorduva Marisa Cuomo sono stati dati in omaggio al presidente americano Joe Biden in una missione istituzionale del Presidente del Consiglio Mario Draghi.

Morbido al gusto, con una persistenza aromatica di albicocca secca, uva passa e canditi, il Fiorduva, da quasi vent’anni è consacrato come miglior bianco d’Italia.

Onori per Andrea e sua moglie Marisa che sono diventati anche motivi di responsabilità verso la comunità della Costiera Amalfitana. 

Cento famiglie locali. Che conferiscono le loro uve. Cento famiglie che basano la loro quotidianità sulla “visione e strategia” di Andrea capace in oltre vent’anni di ascoltare e assecondare la natura sapendo trarre da essa il meglio.

L’emozione di entrare per la prima volta nella sua cantina. Forte. Come il muro di freddo che ci accoglie in una caldissima giornata di luglio.

Luci basse, trasmettono armonia alla cantina. Ma anche mistero.

E’ una vera e propria grotta, voluta e scavata da Andrea.  

Una energia così forte nel raccontarla da parte di Andrea che sembra sia stata scavata da lui a mani nude.

Una grotta con macchinari di altissima tecnologia concentrati in uno spazio ridotto.

Ogni angolo sfruttato con arguzia. Poi la costa di Furore, che abbraccia la cantina. La avvolge con spigolosità delle sue rocce. Centinaia di bottiglie che sbucano dai tanti anfratti della “grotta”. Vino e la sua roccia in una simbiosi che si concretizza fortissima anche alla prima visita.

A cinquecento metri di altezza sul mare, le viti allevate prevalentemente a pergolato e spesso piantate sulle pareti rocciose verticali, si estendono su dieci ettari di superficie di cui 3.5 ettari di proprietà.

Lo spettacolo naturale della pianta che negli anni ha saputo sviluppare dei veri e propri “quadri astratti” attrazione per il turista e poi lo spettacolo costruito della cantina. Un unico filo di emozioni che Andrea e Marisa hanno saputo creare e rafforzare quotidianamente.

Con l’amore infinito della propria terra e il rispetto dei suoi collaboratori contadini, quel filo rosso è sempre più spesso, forte e capace di legare gli amanti di chi sa leggere le emozioni di un vino unico.

Garbo e irruenza nelle bottiglie di Furore ultima modifica: 2022-09-23T17:30:40+02:00 da Matteo Donelli

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