“Mio padre mi diceva che sono “n’alberu de volìa capisutta” – un ulivo capovolto – le radici sono forti ma viaggiano. Non che fossi infelice a Zollino, ma sin da ragazzina mi incuriosiva scoprire come vivessero gli altri, come vedessero la vita. Mi sono laureata in lingue a Lecce”. Esordisce così Manuela Pellegrino, antropologa esperta di griko con master e dottorato in antropologia presso l’University College of London. Nel suo percorso ha insegnato antropologia all’università Brunel di Londra. Attualmente borsista presso il Centro di Studi Ellenici (CHS, Harvard) di Washington con un progetto sui movimenti di protesta contro le crisi ambientali che affliggono il Salento e la Grecia. Insieme a lei faremo un ‘viaggio’ alla scoperta di questa importante minoranza linguistica da tutelare.
Manuela il griko è “una lingua che muore o un monumento che vive”?
Il Griko non muore nonostante la cronaca della sua morte annunciata sin da quando fu ‘scoperto’ dai linguisti nel diciannovesimo secolo. Le lingue non sono persone che muoiono, né specie da proteggere. Queste metafore applicate alle lingue sono fuorvianti, offuscano le dinamiche sociali che portano le persone, attraverso scelte travagliate, a non parlarle/insegnarle ai propri figli. Io mi occupo di ideologie linguistiche, delle idee, visioni, concezioni, percezioni, sentimenti che le persone manifestano rispetto al griko, nello specifico.
È chiaro che queste sono molteplici, che cambiano nel tempo, interagendo con la realtà circostante. Ci sarebbe tanto da aggiungere, ma arrivo al riferimento, al griko “come monumento vivente dell’ Ellenismo”. I miei amici greci appassionati di griko lo definiscono spesso così “ena zondanò mnimio tu Ellinismù”. Per molti di loro il fatto che il griko sia ‘sopravvissuto’ per un millennio o millenni diventa la prova del valore dell’ellenismo, ragione di orgoglio nazionale.
Montinaro sostiene che “quasi certamente il bilinguismo è stato lo strumento che ha permesso al griko di resistere nel tempo”. Cosa significa?
Molti pensano erroneamente che ogni stato-nazione moderno abbia sempre avuto una lingua. Montinaro ricorda giustamente il fenomeno del bilinguismo; il linguista Fanciullo parla di convivenza, di simbiosi di greco/latino prima e griko/dialetto romanzo dal periodo bizantino (bilinguismo storico). Con questo non s’ intende però un uso diffuso, indifferenziato delle due lingue, tantomeno che tutti fossero bilingue. Sicuramente il prolungato contatto, ha portato le due lingue ad influenzarsi reciprocamente. Pensa che il griko veniva erroneamente definito ‘bastardo’ proprio a causa dell’influenza del dialetto.
Quando le comunicazioni tra paesi migliorarono a partire dal XIX secolo chi parlava griko fu portato a imparare e usare sempre più il dialetto. Così si arriva all’espressione “gente cu doi lingue” trasformatasi poi nello stereotipo “gente cu doi lingue e cu doi facce”, gente di cui non ‘fidarsi’. I bilingue sono stati portati a pensare che parlare e/o insegnare ai figli due lingue fosse negativo. Oggi l’ideologia che celebra la diversità linguistica sta portando alla riappropriazione positiva dell’espressione ‘gente cu doi lingue’.
Manuela sei un’antropologa nota nel tuo campo. Ma al di là dei tuoi studi, come ti è stato trasmesso il griko e cosa rappresenta per te?
In realtà sono diventata antropologa per raccontare la storia del griko, prima di tutto a me stessa. L’antropologia è stata uno strumento, ma il griko rimane innanzitutto la voce di persone che amo. Pensa che già quando frequentavo le scuole medie trascrivevo le frasi che diceva mia nonna Lavretàna che viveva lunghi periodi con noi. I miei genitori lo usavano solo quando non volevano essere capiti da noi figlie; questi episodi sono comuni a tanti.
Ricordo tuttavia che torturavo mio padre alla ricerca delle ‘regole’ del griko, imitando il libro di testo di francese. L’ho poi imparato da adulta, con i miei giovani vecchietti –la Ndata Marianna, l’Antiminu – e con i miei. Poi è chiaro, completavo studiandolo anche sulle varie grammatiche. Da oltre un decennio, da antropologa, scrivo di griko, della sua gente, lo porto con me parlandone in giro per il mondo ai convegni. Ma per viverlo mi basta respirarlo, parlarlo con i miei vecchietti, con gli appassionati di Griko, ma anche scrivendo poesie e racconti, recitando in griko.
Ci sveli un detto, una frase, un canto o una poesia che hai sentito spesso in famiglia o che ti piace particolarmente?
Ti svelo una poesia che mio padre Niceta (che ci ha lasciati nel 2014) ha dedicato a sua madre, alla nonna Lavrètana quando è morta (all’età di 104 anni). Racconta della sua tristezza mentre passa davanti alla casa materna. Dice che a volte gli sembra di vedere la porta aperta, di vedere sua madre con un bambino tra le braccia e che così la sua anima smette di essere triste. Iavènno sti strada/ panta prikò/ jatì ‘e’ torò/ ‘i’ mànammu/ echi tosso cerò/ kamìa forà torò/ ‘i’ porta anittì/ mu fènete ka torò/ ‘i’ mànamu/ sta chèria ena petì/ ce i scichèddamu/ ‘en ene pleo’ prikì/.
Come potrà continuare a vivere il griko?
Le lingue si respirano, vivono attraverso le persone; le persone vivono con il griko. Lo fanno parlando, scrivendo, recitando, cantando in lingua, anche discutendo su come si dica qualcosa o come sia meglio scriverla. Il griko è arrivato a noi anche grazie all’attività di documentazione dei cultori e appassionati; ognuno dei nostri paesini ne conta, anche se hanno contribuito in modi e tempi diversi. Ci è arrivato attraverso le loro poesie, la musica. Nessuno può negare che oggi il griko ‘sopravvive’ come lingua di comunicazione per una minoranza nella minoranza, ma è anche una risorsa culturale.
E’ strumento di relazioni culturali, oltre i confini locali. Ci si riavvicina al griko col tempo, ognuno con il proprio, per una sorta di eco affettiva. C’è poi chi si avvicina per curiosità intellettuale, chi per bisogno di identificarsi. Oggigiorno c’è un interesse diffuso per le lingue minoritarie, incuriosiscono. Mi auguro che nessuno cada in trappole vecchie che porterebbero alla sua mercificazione, e/o ad una rappresentazione falsata della realtà. Lasciamo che il griko ri-suoni, come sa fare i glossa pu simèni!
Ci sono dei progetti di salvaguardia del griko?
Singoli cultori e appassionati si sono sempre occupati di griko, le associazioni già dagli anni settanta. Con la legge nazionale 482 del 1999 e quella regionale del 2012, i progetti si sono moltiplicati. Ma cosa significhi ‘salvaguardare’ il griko o come farlo, è oggetto di accesi dibattiti (ideologici). Si discute su chi detenga l’autorità sul griko e come definirla; come insegnarlo, come scriverlo/trascriverlo, se e come arricchire il suo vocabolario. Chi lo scrive viene accusato di non parlarlo, chi lo parla viene ripreso se non è madrelingua. Insomma, il griko unisce, ma può anche dividere purtroppo, accendendo campanilismi, invidie, conflitti, sull’accesso alle risorse – materiali e simboliche – che offre.