Il professor Gabriele Sganga, è il direttore del reparto di Chirurgia d’Urgenza e del Trauma dell’Ospedale Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma che è stato il migliore ospedale d’Italia per il terzo anno consecutivo e unico ospedale italiano nella top 40 mondiale, secondo la classifica stilata dal magazine americano Newsweek in collaborazione con Statista Inc.
È specialista in Chirurgia Generale e Chirurgia Toracica, si occupa di infezioni e sepsi in chirurgia ed è professore Associato Confermato di Chirurgia, Istituto di Clinica Chirurgica, Divisione di Chirurgia Generale e Trapianti di Organi. È tra i pochi chirurghi al mondo esperti di sepsi in chirurgia, perchè di infezioni e sepsi se ne occupano gli infettivologi o gli intensivisti ma i chirurghi sono pochi. Ha al suo attivo, tra l’altro, un notevole numero di pubblicazioni e ha fatto oltre 670 relazioni su invito in tutto il mondo compresa Cina, Giappone e Russia.


Professore vorrebbe raccontarmi brevemente il suo percorso professionale e come ha sviluppato la passione prima per la medicina e poi la chirurgia?

Ho cominciato i miei studi che non volevo andare a scuola per cui, per andare in prima elementare, mia mamma mi ha comprato un pallone, l’ha dato al mio maestro e gli ha detto “se il ragazzino viene a scuola, lei dopo un mese gli dà questo pallone”. Io pur di rincorrere quel pallone sono andato a scuola e ho scoperto di amare lo studio, infatti, ero sempre quello del primo banco. Ero il primo della classe che passava i compiti agli altri ma, vivevo in un paesino povero, con tanta gente che aveva bisogno di istruzione, quindi, non era difficile essere il primo della classe. Ho fatto le scuole elementari e la prima media a Nicotera Marina e poi ci siamo trasferiti a Tropea che è la città che mi ha adottato, perché a Tropea ho passato l’adolescenza, ho fatto le scuole medie per due anni, il liceo, ho conosciuto gli amici, i compagni di scuola, ho iniziato a socializzare, e ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie. Ho fatto il liceo classico Pasquale Galluppi, a Tropea, con un grande preside che era don Pantano. Mia mamma era molto malata, infatti, pochi mesi prima della mia maturità purtroppo è deceduta. Subito dopo il diploma, don Pantano, sapendo che a causa della malattia di mia mamma avevo acquisito una certa vocazione, non tanto per la medicina ma per la pratica medica, quasi assistenziale, ha detto a mio papà che a Roma c’era l’università Cattolica.


Per frequentare quella Università sarebbe servita una lettera di presentazione del Vescovo alla quale avrebbe pensato lui, così, con questa lettera di presentazione, che avevano tutti, perchè era un documento richiesto, mi sono ritrovato a fare il concorso nel settembre del 1972. Non eravamo tanti come oggi, eravamo circa 800 candidati per 150 posti. Così sono entrato all’università Cattolica alla facoltà di medicina. Devo dire che i primi anni sono stati molto duri perché contrariamente alle elementari dove c’erano bambini con cultura sicuramente inferiore alla mia, lì ho trovato, invece, gente che aveva livelli culturali molto più elevati dei miei. C’era anche un piccolo gruppo di colleghi che veniva dall’estero, pur parlando italiano, che erano figli di diplomatici; c’era chi veniva dall’Inghilterra, chi dalla Svizzera, chi dall’Iran, tutta gente di elevatissima cultura con cui ti dovevi confrontare. Questa è stata una palestra molto importante per me che mi ha consentito anche di spaziare in un campo più ampio, non vi scordate che parliamo di un’epoca in cui non c’era internet, era tutto cartaceo, imparavamo dai libri e vedevamo qualcosa in televisione. Ho felicemente concluso il mio corso di laurea in medicina nel 1979 facendo una tesi in clinica chirurgica, perché in realtà avevo una certa vocazione per i fatti, per le cose visibili.

Lavorare come chirurgo comporta prendere decisioni difficili e momenti di grande pressione. Lei come si prepara a gestire queste situazioni che sono stressanti e spesso complesse?

Premesso che ogni lavoro ha le sue responsabilità, le sue complessità, il suo aspetto educazionale e formativo, devo dire che, in passato, c’era proprio un modo di apprendere, che era quello di “vedere, fare e insegnare”, oltre a questo, per arrivare a certi livelli, bisogna metterci qualcosa di più, bisogna metterci entusiasmo e passione ma, soprattutto, quello che ho notato in certi ambienti, bisogna dimostrare alle persone che stanno intorno a te, di essere affidabile, capace e continuativo. Sono state queste piccole doti che mi hanno permesso di stare in un grande ambiente universitario e chirurgico. Bisogna inoltre essere disposti a fare qualcosa in più, infatti, quando il mio professore mi disse che, per completezza era necessario conoscere l’inglese, e mi hanno proposto di andare negli Stati Uniti per qualche anno, mi sono reso conto che era un consiglio assolutamente ottimale e un’occasione da non perdere. Così mi sono ritrovato, un anno dopo la laurea e per un paio d’anni, in uno Shock e Trauma center a Baltimora alla Meryland University. Stiamo parlando del primo Shock e Trauma center del mondo, dove hanno dato il via a quel concetto di prendere i pazienti anche con l’elicottero. È chiaro che il confronto con gli altri colleghi, il vedere gli avanzamenti operativi, operatori, chirurgici, ti permetteva di poterti formare e poi di applicare, a secondo la branca che tu decidevi, anche perché la chirurgia già all’epoca cominciava ad avere all’interno di sé delle branche. Originariamente c’era chirurgia generale, il chirurgo generale faceva quasi tutto. Il mio direttore di cattedra il professor Castiglioni era cardiochirurgo, neurochirurgo, chirurgo toracico, chirurgo vascolare, oggi una cosa del genere sarebbe proprio disadatta. Oggi ci sono invece dei campi dove bisogna essere specialisti, bisogna individuare una patologia e settorializzarsi in maniera da raggiungere il massimo dell’eccellenza.

Cosa vuol dire essere un bravo chirurgo?

La chirurgia è fatta anche di imprevisti, qualcosa che tu non ti aspetti possa accadere, invece accade e quindi bisogna conoscere delle tecniche, conoscere dei metodi, degli strumentari, dei meccanismi che ti permettono di far fronte a un’eventuale complicanza. Il bravo chirurgo non è solo quello che opera molto, ma, è quello che ripara i danni. Questo vuol dire che ci vuole un qualcosa in più che non la semplice manualità, altrimenti la chirurgia di base, se non fosse per queste problematiche impreviste e imprevedibili, il più delle volte sarebbe una rutinarietà perché c’è chi fa ormai solo alcuni interventi e ne fa centinaia, migliaia. C’è chi fa 60 interventi alla settimana di un tipo di chirurgia, però, anche a lui prima o dopo può succedere qualche imprevisto e in quel caso è necessaria una cultura superiore. Questo mi hanno insegnato i miei maestri, che ci vuole anche una grande cultura. Questo crea il grande chirurgo, anche perché il grande chirurgo esce anche dalla rutinarietà ed è da lì che nascono i nuovi interventi cioè i trapianti. Io originariamente non facevo trapianti d’organo mi sono sempre occupato di chirurgia generale e chirurgia d’urgenza che è quella che sto facendo attualmente e mi sono prevalentemente occupato sin dal primo giorno della laurea di infezioni e sepsi in chirurgia. Questo è il mio campo di battaglia, però me ne sono dovuto occupare perché c’era bisogno di gente che aiutasse, perché questi interventi erano spesso molto lunghi. Adesso si è arrivati a una ottimizzazione, quindi un trapianto di fegato oggi può durare anche 3 o 4 ore, ma, i primi trapianti di fegato che sono stati fatti, almeno da noi, ma ovunque nel mondo, duravano 12 ore o anche di più per cui, i chirurghi che operavano, a volte avevano bisogno anche di ricambio e ammesso che completavano l’intervento, perché la competenza era totalmente loro, poi c’era una parte, per esempio anche solo chiudere il malato, che poteva significare anche 2 o 3 ore di lavoro, perché dovevi assicurarti che non ci fossero emorragie e, quel povero chirurgo che aveva già fatto molte ore di trapianto non ce la faceva, allora, doveva intervenire qualcun altro per completare l’opera.

Professore, lei come si rilassa?

Questa è una parolona, diciamo che bisogna trovare qualunque cosa per potersi distrarre. In genere rilassarsi significa avere dei giorni di ferie, essere in vacanza, oppure a volte significa avere delle ore o spesso dei minuti addirittura, quindi tutto dipende da dove sei. Capita di aver bisogno di rilassarsi anche sul luogo di lavoro quindi magari torno nel mio studio mi siedo su una poltrona e penso, penso a quello che ho fatto o a quello che non ho fatto però è sempre un metodo, quindi, non so quanto è rilassante però è un metodo di confronto con se stessi che è sempre importante. Poi c’è la musica, il bricolage, o anche fare a casa qualunque cosa si possa aggiustare, qualcosa di elettricità o di falegnameria. L’altra cosa che faccio molto volentieri è tornare quando posso in Calabria dove mantengo un ottimo rapporto non solo con le persone, con gli amici ma, proprio il contatto con la terra e con l’ambiente, e il territorio e l’ambiente è una cosa che mi rinfranca molto.

Professore, lei quindi è molto legato alla sua terra d’origine che è la Calabria, in che modo mantiene il contatto con le sue radici?

Il rapporto con la Calabria viene non tanto dalla medicina quanto dagli amici. Io sono nato a Nicotera dove ho una casa e sono vissuto a Tropea e quello che attrae me e mia moglie a tornare, sono le persone, i compagni di scuola del liceo, delle scuole medie, o anche gente conosciuta in corso d’opera con cui effettivamente si sono creati degli affetti e poi, accade che da qui nascano anche dei progetti culturali. Per esempio le dico che Nicotera ha una caratteristica, è la città della dieta mediterranea. Noi chirurghi ci occupiamo molto della nutrizione nel nostro paziente, fa parte del nostro corredo professionale, perché facciamo la nutrizione sia artificiale sia parenterale, quindi dobbiamo conoscere i nutrienti che si danno e quello che si dà, in fondo, è molto simile alla dieta mediterranea. Un americano, Ancel Keys, negli anni ’59 e ’60 ha fatto degli studi a Nicotera perché avevano notato che lì c’erano delle persone molto longeve. Queste persone longeve mangiavano il cibo che c’era, c’era il mare e quindi mangiavano il pesce azzurro, c’era la collina e quindi assumevano l’olio extravergine di oliva e le verdure. Inoltre, la gente camminava moltissimo, per andare al lavoro non c’era la macchina come oggi e quindi tutto ciò portava ad avere dei valori di colesterolo molto bassi e ad avere meno accidenti cardiovascolari. Da qui hanno capito che quello stile di vita e quel tipo di dieta portava a dei valori di colesterolo basso; Questo non succedeva solo a Nicotera ma in tutto il Mediterraneo, non c’è nessuna peculiarità ma lo studio è stato fatto a Nicotera. Perché ho detto questo, perché dei colleghi che si occupano a Nicotera di dieta mediterranea, mi hanno coinvolto anche in questi aspetti e quindi mi è capitato di poter collaborare con loro anche culturalmente in questi eventi oltre che negli eventi congressuali che riguardano la nostra professione in particolare quella medico chirurgico.


Professore, mi racconta un ricordo particolare legato alla Calabria?

Si, glielo racconto. Le racconto un fatto che mi è capitato, e che mi ha ulteriormente avvicinato alla Calabria. Noi avevamo a Nicotera Marina una casa e la parte che toccava a me era un rudere perché, per vari motivi, era stata trascurata. Delle persone avevano pensato che questi ruderi fossero pericolosi, ma non lo erano affatto, per cui, improvvisamente viene fuori che c’era la possibilità che la abbattessero. Un mio cugino architetto mi ha consigliato di ripristinare la casa e così ho fatto, nonostante avessi perso tutti i contatti con il mio paese di nascita dove ho vissuto solo per i miei primi 6 anni. I lavori della casa sono andati molto a rilento e io ho cominciato piano piano ad andar lì. All’inizio non mi conosceva nessuno e al massimo mi conoscevano come il figlio del segretario Sganga perchè mio padre era un uomo conosciuto e stimato, forse non sapevano neanche che fossi medico. Lì viveva una mia zia, la sorella di mio padre e capita che un ragazzone di 28 anni circa che pesava 180 chili, drogato, che beveva tanto, ha un’insufficienza epatica. I medici della zona si erano resi conto che avrebbe avuto bisogno di un trapianto di fegato e questa mia zia ha pensato di rivolgersi a me. Quindi mi chiama e mi dice che Giovannone, perché così lo chiamavano, aveva bisogno di un trapianto. Io mi attivo con l’iter da seguire e dopo un po’ di tempo finalmente riusciamo a ricoverarlo per cominciare a studiarlo per il trapianto. Prima di tutto abbiamo fatto un piano per cercare di non farlo bere più e di non farlo drogare più e soprattutto di farlo dimagrire perché a 180 chili era difficile poterlo trapiantare, devo dire che gli internisti sono stati molto bravi e piano piano sono riusciti a fargli perdere peso fino a 120, 130 chili. Nel corso di questo abbassamento di peso, peggiora l’insufficienza epatica, al punto che si rende necessario un intervento quasi urgente di fegato. Noi aspettiamo, perchè non era facile avere gli organi soprattutto in quell’epoca, oggi le donazioni sono migliorate sicuramente e poi lui aveva un gruppo sanguigno particolare. Sta di fatto che il 24 luglio di un anno, arriva un organo per lui. Io il 24 luglio dovevo partire per le vacanze. Il primario, sapendo che era un trapianto un po’ difficile, mi ha chiamato la notte per dirmi di fare insieme questo trapianto delicato, anche perché io avevo seguito il paziente e conoscevo tutta la sua storia medica; quindi mi ha invogliato e abbiamo fatto il trapianto con successo. Insomma alla fine va tutto bene e Giovannone ritorna al suo paese. A settembre io ritorno a Nicotera Marina e mi sento additare dalle persone, andavo a comprare i pomodori e non mi facevano pagare, insomma, improvvisamente… tutti sapevano chi fossi.

Immagino che amici e familiari le chiedano di frequente consigli medici, in maniera anche informale. Qual è stata la richiesta più stravagante che ha ricevuto?

Effettivamente me ne sono capitate parecchie. I primi anni di laurea una signora, che era molto amica di mia mamma e che la seguiva anche durante la malattia, ha avuto un melanoma. All’epoca c’era una terapia che poi è fallita che facevano in un ospedale romano oncologico dove un professore stava sperimentando l’idea di riscaldare il sangue quindi bisognava fare una sorta di trasfusione al paziente riscaldando il sangue. Per fare questo, c’era bisogno di grandi quantità di sangue che cambiassero quello della paziente. Il corpo umano contiene circa 5 litri di sangue, quindi potevano servire anche 3 o 4 litri di sangue. Il marito della signora mi chiama una mattina dicendomi di aver bisogno di 3 o 4 litri di sangue, lui credeva che fosse una cosa facile da fare ma, chiaramente, la sua era una richiesta assurda. Oppure quando mi hanno chiamato da casa per raccontarmi una situazione, che ti fa capire che la persona è molto grave, sta vomitando sangue, è pallido, è sudatissimo, quindi, senza saperlo ti dicono per telefono che quel paziente ha uno shock emorragico e allora devi dirgli che devono chiamare subito un’ambulanza e farlo portare all’ospedale. Mi chiedono se lo devono portare al Gemelli, ma il paziente si trovava a Policoro per cui io gli dico di portarlo subito all’ospedale di Policoro, arrivato lì, i medici gli dicono che aveva un’ulcera duodenale sanguinante. Ecco, certe volte bisogna capire non solo la gravità ma che ci sono dei percorsi da fare nell’urgenza e nel posto dove si è. Spesso però chi è dall’altra parte non raccoglie positivamente questo tipo di risposta perché pensa che tu ti voglia disfare del problema. Voglio dire, insomma, che dietro le richieste che si fanno, anche le più particolari, spesso ci sono dei drammi enormi e si percepiscono delle diagnosi.

Grazie Professor Sganga

Intervista al prof. Gabriele Sganga, direttore di Chirurgia d’Urgenza e del Trauma al Gemelli di Roma ultima modifica: 2023-09-13T11:00:00+02:00 da Paola Stranges

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